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Game of Thrones 5×09: The Dance of Dragons, la recensione

La nona puntata. Una morte, una battaglia, uno sterminio, una battaglia e una morte romantica, un sacrificio.

Guardare The Dance of Dragons è stato doloroso e ingiusto. Ma ci siamo riusciti: abbiamo retto all’ennesimo duro colpo inferto da una serie che, seppur in maniera sempre più grossolana, ci fa riflettere su quanto l’uomo sia grande e misero.

[su_note note_color=”#fff9a6″ radius=”6″ su-note-inner=”box-spoiler” ]Avvertiamo i lettori che la seguente recensione contiene spoiler sulla trama. Se non hai visto l’episodio o non vuoi rovinarti eventuali colpi di scena non continuare a leggere![/su_note]

L’episodio si apre con il ghiaccio e il fuoco: i vigili occhi dello sciamano vedono oltre la realtà, quello che non è ancora accaduto. Melisandre di Asshai fissa la neve che, dopo qualche secondo, divampa in fiamme distruttrici. Ramsay Bolton ha mantenuto la sua promessa: con una manciata di uomini ha decimato l’esercito di Stannis e ne ha distrutto provviste e speranze. Ne resta solo una, la più atroce: affidarsi al dio.

Il Signore della Luce promette grandi cose ma a un prezzo troppo caro. Solo qualche puntata fa re Stannis era il padre amorevole che avrebbe rischiato tutto tranne sua figlia, la sventurata bambina che lui stesso, con la determinazione che lo contraddistingue, aveva strappato alla malattia. Oggi è un re che ucciso l’uomo, è Agamennone, è l’eroe tragico che soccombe sotto il peso della spada di Damocle che grava sul suo capo.

Capiamo che la situazione non promette nulla di buono sin da quando Davos, l’unico personaggio realmente scomodo, viene spedito lontano con compiti da normale ambasciatore. Il cavaliere della cipolla non sarebbe rimasto a guardare: non avrebbe temuto la donna rossa né di disobbedire al suo re: avrebbe seguito il cuore e il senno, come sempre. Ma se Davos Seaworth rappresenta l’umanità nel suo significato più nobile, Stannis Baratheon ha a che fare con forze che la sovrastano: il divino, il fato.

Nel discorso di commiato da Shireen il re parla di destino: chi crede che Stannis lotti per il potere si sbaglia di grosso. Lui DEVE salire sul trono, è ciò che gli è toccato in sorte alla morte di Robert. È per questo che non può fermarsi davanti a nulla. Attoniti lo osserviamo compiere un gesto disumano e togliere la vita a uno dei personaggi più amabili della serie. Irrazionalmente desideriamo che cambi idea o che qualcuno – persino Ramsay! – arrivi a fermarlo. Ma non stiamo guardando un film Disney: qui non ci sono buoni e cattivi né colpi di scena salvifici. Ci sono uomini veri, con i drammi che li fanno immensi e miserabili. Eroi perché hanno il coraggio di prendere decisioni difficili e impopolari, bestie perché capaci di sacrificare una bambina innocente, carne della propria carne.

Le urla di Shireen sono strazianti, persino sua madre abbandona la fede incrollabile per correrle incontro. Per quanto mi riguarda nessuna morte è stata più dolorosa di questa: la guerra, i fondamentalismi, sono mostri ciechi che annientano la dolcezza. Shireen era la dolcezza. Davos l’aveva capito e la amava come un padre, forse rivedendo nel suo volto innocente i figli perduti in battaglia, oppure soltanto perché ammirava una bambina straordinariamente sensibile che sapeva vedere nell’animo delle persone e riconoscere la poesia del mondo.

Mi scuso per l’elogio funebre, quindi cambio completamente atmosfera. Rullo di tamburi, suon di fisarmoniche, parte una Tarantella… ed eccoci a Dorne. “Il turco napoletano” Jaime Lannister si presenta al cospetto del principe Doran ma, sebbene in pericolo di vita e dopo aver visto fallire miseramente il suo “piano”, viene profondamente turbato dalla scollatura di quella che ancora non lo sa ma è la cocca di papà. Il siparietto, per fortuna, dura poco. Quello che segue, però, non serve a risollevare le sorti della storyline più ridicola che si potesse mai concepire. Ciò che è maldestramente tratto da Martin va bene: un dorniano nel Concilio ristretto per rimpiazzare Oberyn, la scelta tattica della pace. Il resto è cinepanettone puro: comici pugni riparatori, principesse adolescenti con gli ormoni impazziti, sedicenti guerriere che regalano antidoti agli avversari solo per sentirsi dire che sono belle.

Ellaria e Jaime, in separata sede, affrontano un discorso interessante: non è scritto da nessuna parte chi è lecito amare. Ogni società stabilisce regole in merito mutando parere da un’epoca all’altra. Pace fatta? Io dico di no. L’ultimo sguardo dello Sterminatore di re è dubbioso, diffidente. Che le Serpi, capitanate dalla loro matrigna, abbiano in mente di tradire la parola data al loro principe?

Della Barriera ci è mostrato uno scorcio. Un’orda di Bruti si consegna al secolare nemico con la testa bassa, Jon si lamenta perché avrebbe voluto fare di più, i Corvi hanno gli sguardi torvi e minacciosi: i pregiudizi sono duri a morire nonostante l’inverno stia arrivando.

A Braavos, invece, Arya Stark è tornata: di Lanna ha soltanto l’aspetto. Casualmente, proprio mentre sta per eseguire il suo compito, si imbatte in Mace Tyrell in visita alla Banca del ferro e nella sua odiata guardia: Meryn Trant. Impazzita dal desiderio di vendetta, segue quest’ultimo in un bordello della città dove si scopre che egli, oltre che vuoto e violento, è anche un pedofilo incallito. Senza poterlo neanche sfiorare, Arya torna al tempio e, questa volta, maestro Jaqen si beve le sue bugie. Abbassando la guardia, volutamente o no, è come se le avesse dato il permesso di assecondare i vecchi rancori.

Daenerys è annoiata dalla vita oziosa della regina costretta a starsene con le mani in mano mentre guerrieri di cui non le importa nulla si ammazzano per lei. Ah no, ad animare lo spettacolo arriva il solito Jorah. In tribuna d’onore chiunque ammutolisce: Hidzar smette di esser preso in giro da Daario e umiliato da Daenerys e Tyrion. Gli occhi di tutti sono puntati sul cavaliere dell’Orso. I guerrieri combattono senza esclusione di colpi tenendoci con il fiato sospeso. Pur temendo per Jorah, siamo felici che Daenerys sia sul punto di piangere, finalmente commossa da un uomo che non può amarla più di così.

Quando finalmente sta per essere decretato campione, ser Jorah scaglia una lancia in direzione di Daenerys, così velocemente da non darci il tempo di chiederci se sia completamente impazzito. Il colpo è l’ennesima dichiarazione di fedeltà. Nell’arena si moltiplicano gli inquietanti individui mascherati che hanno tanto a cuore la rovina della monarchia Targaryen su Meereen. I figli dell’Arpia uccidono spettatori, nobili e Immacolati sempre meno all’altezza delle nostre aspettative. Nella confusione generale, abbiamo il tempo di gustarci la scena romantica che attendevamo da tempo immemore: Jorah tende la mano alla sua regina per metterla in salvo e lei, con occhi languidi pieni di trasporto, gliela stringe. A poco varranno i tentativi di trovare un rifugio sicuro: Daenerys, Tyrion, Missandei, Daario e Jorah vengono accerchiati dal nemico. Sembrano non esserci speranze per loro ma la regina chiude gli occhi e invoca un deus ex machina. Enorme, nero e fastidiosamente finto, Drogon plana sull’arena affamato di infami Arpie. Ne sgranocchia alcune, ne arrostisce altre, mentre sua madre muore dalla voglia di cavalcarlo. Dimenticando il mondo e gli amici pronti a dare la pelle per lei, compra il suo biglietto di sola andata “verso l’infinito e oltre”. La scena è da pelle d’oca: il cielo accoglie un prodigio, sulla terra resta l’uomo sbalordito e desideroso di volare in alto. Tyrion, piccolo per antonomasia, questa volta lo è ancor di più: lo è per tutti noi al cospetto della maestà del drago.

Ormai a un passo dal finale, possiamo ufficialmente rimpiangere lo splendore delle stagioni precedenti. Guardare una puntata di Game of Thrones, però, vuol dire ancora arricchirsi, emozionarsi, soffrire.

 

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